Err

Bandeau-pdf-web.jpg
Paolo Piangiarelli, Phil Woods e un gionalista in Perugia il 12 Novembre 1980 © Carlo Pieroni by courtesy

Phil Woods et Paolo Piangiarelli



Philology, una storia di amore


«Dear Paolo,
Your passion for Phil’s music has always been a constant in our lives. Stay well and give my love to Giovanna and brother Sandro. Love, Jill Goodwin»

Phil Woods aveva un legame particolare con l’Italia, maturato attraverso il sodalizio professionale e umano con Paolo Piangiarelli, fondatore dell’etichetta discografica Philology. Figura un po’ romantica di appassionato genuino e profondo conoscitore del jazz, nell’arco di circa trentacinque anni Piangiarelli ha ampiamente documentato la produzione di Woods, mettendolo spesso a confronto anche con altri musicisti (soprattutto italiani) gravitanti nel circuito dell’etichetta.

Profondamente legato a Woods anche sotto il profilo umano, Piangiarelli ne ha seguito con apprensione anche le ultime settimane di vita, tenendosi frequentemente in contatto con la moglie Jill Goodwin.

L’intervista è stata realizzata il 1 ottobre 2015, due giorni dopo la morte di Woods, stroncato dalle complicazioni dell’enfisema polmonare di cui soffriva da anni.


Enzo Boddi
Fotos Carlo Pieroni et Umberto Germinale


© Jazz Hot n°673, automne 2015


Phil Woods, Paolo Piangiarelli e Dizzy Gillespie in Roma Teatro Olimpico il 17 Maggio 1985 "Tributo a Charlie Parker", per la premiazione come migliore musicista italiano Massimo Urbani e come migliore musicista straniero Phil Woods © Carlo Pieroni by courtesy


Jazz Hot: Prima ancora di lavorare assiduamente con Phil Woods, ne avevi seguito il percorso artistico fin dagli inizi.

Conoscevo Phil come musicista da lunga data, prima ancora che venisse in Europa e formasse la European Rhythm Machine nel 1968. Quando lo sentii per la prima volta a Bologna con George Gruntz, Henri Texier e Daniel Humair, rimasi folgorato dalla forza e dall’irruenza con cui Phil dimostrava di voler affrancarsi dall’attività di session man dove era stato confinato. Da lì ebbe inizio una nuova fase creativa della sua carriera, in cui si impose a livello mondiale, vincendo tra l’altro vari referendum di Down Beat e alcuni awards, premi che non avrebbe mai ottenuto se fosse rimasto in America a fare il solista di grandi orchestre come quelle di Gary McFarland e Oliver Nelson. Quando l’ho visto rischiare in proprio, ho capito subito che era nata una stella. Più tardi è tornato, seppur occasionalmente, a fare il solista con grandi personaggi, anche di ambito pop. Ricordo ad esempio alcuni suoi bellissimi assolo su The Art of Romance di Tony Bennett, uscito nel 2004.


A proposito, qui in Italia alcuni organi di stampa hanno dato l’ennesima prova di disinformazione. Ad esempio, il sito della rivista Panorama ha così riportato la notizia della sua morte: "Phil Woods: addio al sax di Just the Way You Are”. Ora, non c’è dubbio che la canzone di Billy Joel sia bellissima e l’assolo di Woods molto pregevole. Tuttavia, che venga ricordato per questo è ridicolo e anche un po’ offensivo.

Del resto quello è solo uno dei tanti esempi, anche se non il più significativo, del suo stile personalissimo, basato sulla melodia. Infatti, io lo chiamavo "supreme melodist”. In effetti, nessuno ha mai saputo "cantare” la melodia come Phil. Gli ultimi dischi che ha fatto in duo e in trio – Songs One, con Vic Juris alla chitarra, e Songs Two, con Juris e Tony Marino al contrabbasso - sono praticamente un inno alla melodia, sostenuti da un suono corposo, bello, fluido nonostante l’enfisema da cui era affetto. Non a caso, Benny Carter lo aveva eletto a suo erede. Secondo me, il più bel suono di contralto che si sia sentito nel jazz da quando Phil fu scoperto nel 1954 dal grande tenorista Al Cohn. Per ironia della sorte, un suono emesso da quello stesso fiato che pochi giorni fa gli si è strozzato in gola.


In che misura Woods era –o lui stesso si sentiva– influenzato da Charlie Parker?

Era ovviamente molto influenzato da Parker, dal quale aveva ereditato anche la maestria nel parafrasare i temi degli standards elaborando nuove e diverse melodie. Come mi aveva raccontato la sua prima moglie Chan Richardson (ex moglie dello stesso Parker), nei concerti con la European Rhythm Machine lui dava tutto se stesso ed usciva dal palco madido di sudore. Era una furia selvaggia, eppure dotato di una grande capacità di controllare il suono e di tramutare in bellezza anche i passaggi più tempestosi. Come ricorderai, la musica della European Rhythm Machine era in continuo movimento grazie a Humair e Texier, e ancor di più quando a George Gruntz subentrò al piano Gordon Beck, molto abile nel lanciare a Woods certi spunti melodici.

Come forse non tutti sanno, avevi coniato il nome della tua etichetta, Philology, sfruttando un gioco di parole che costituiva un’esplicita dedica proprio a Phil Woods.

Inizialmente, e prima ancora di fondare l’etichetta nel 1987 dopo una lunga riflessione, avevo avuto l’idea di realizzare un disco, The Macerata Concert, documento di un concerto memorabile tenuto nel 1980 da Woods nella mia città insieme al suo quartetto di allora, con Mike Melillo al piano, Steve Gilmore al contrabbasso e Bill Goodwin alla batteria. Il disco fu a suo tempo pubblicato in tre Lp e verrà presto riedito su un doppio Cd.

Johnny Griffin e Phil Woods © Umberto Germinale


La produzione che in seguito Woods ha realizzato per la Philology è piuttosto corposa.

In tutto con Phil ho prodotto una quarantina di dischi, considerando sia le incisioni come titolare che le partecipazioni. Figurati che nel 2000 a Milano registrai con lui la bellezza di sette dischi in cinque giorni, perché la Blue Note aveva da poco cancellato il suo contratto, che prevedeva l’incisione di otto dischi in otto anni. Per la Blue Note Phil aveva inciso un disco di bebop con Johnny Griffin, le cui vendite non erano andate bene. Così i responsabili avevano deciso di risolvere il contratto. Avendo saputo che Phil era libero, lo chiamai e gli proposi di registrare per me i restanti sette dischi, garantendogli che in cinque giorni avremmo potuto realizzare l’operazione e che gli avrei potuto mettere a disposizione il meglio del jazz italiano: Franco D’Andrea, Fabrizio Bosso, Rosario Giuliani e altri eccellenti musicisti.  Il primo disco lo facemmo col chitarrista brasiliano Irio De Paula. Avrebbe dovuto essere un duo di sax alto e chitarra acustica. Quando Phil entrò in studio e sentì suonare Irio con quel suo particolare modo di accarezzare le corde coi polpastrelli, esclamò: "Ma questo è un angelo!” e disse di voler fare qualcosa che non aveva fatto per molto tempo, cioè suonare esclusivamente il clarinetto. Da quell’idea nacque Encontro (on Jobim), un capolavoro realizzato in sole tre ore. De Paula ovviamente era al settimo cielo. Anche il terzo disco, Você e eu (con Barbara Casini e Stefano Bollani), fu dedicato prevalentemente a Jobim ed inciso in due ore, all’insegna del "buona la prima”. Il quarto fu un album solo, The Solo Album: sessanta minuti filati di musica, anche quella volta registrata in diretta con sistematica precisione. Quando l’ascoltò, Lee Konitz mi chiese provocatoriamente: "Ma Phil ha usato il metronomo?”.

A proposito di album in solitudine, come nacque Dialogues with Christopher, senz’altro uno dei più significativi lavori della fase conclusiva della sua carriera?

Da una mia idea, che Phil accettò con entusiasmo, quando gli dissi che avrei voluto facesse un album solo in cui dialogava con se stesso, registrando degli assolo e poi suonandoci sopra. Il disco si apre e si chiude con due requiem dedicati a Hank Jones; in mezzo sono stati inseriti altri tredici pezzi. Poi Phil aggiunse delle tracce di pianoforte in molti brani, cantando anche in un paio; quindi sovraincise il sax alto due, tre, fino a quattro volte, al servizio delle sue melodie. Anche in questo caso tutto fu fatto in un pomeriggio. Il disco, registrato nell’ottobre 2010, è per me commovente. Poi l’11 gennaio 2011 è nato suo nipote Christopher; al che, suggerii a Phil di dedicarglielo, ed ecco come si spiega il titolo. Per la mia concezione del jazz, questa musica potrà andare avanti finché ci saranno i grandi solisti come lui. Soprattutto, ci vogliono i narratori di storie e Woods era uno di questi.


Phil Woods avrebbe presto compiuto 84 anni. Lee Konitz –un altro dei musicisti di riferimento della tua etichetta- ne ha 88. Non ritieni che purtroppo molti grandi narratori siano a rischio di estinzione?


È proprio per questo che ho cercato e cerco di documentarli finché sono in vita e ragionano non solo con la mente, ma anche con il cuore. I dischi che Konitz ha fatto con me sono dei capolavori. Quando è entrato in studio per la Philology, Konitz non ha mai fatto una marchetta, forse anche per il timore del giudizio di Woods. In parte mi spiego anche così la bellezza della musica di Lee.

Paolo Piangiarelli e Phil Woods presso la sua abitazione in Pennsylvania (U.S.A.) 1982 © Carlo Pieroni


Intravedi nel panorama odierno degli eredi spirituali –stilisticamente parlando– di Phil Woods?

Non stimo particolarmente i contraltisti attuali, pur apprezzandone la tecnica. Ad esempio, riconosco che Kenny Garrett è un musicista molto preparato. Uno che può suonare con il senso della melodia di Woods - e può farlo come nessuno al mondo - è Francesco Cafiso, che io scoprii quando aveva undici anni. Cafiso aveva un genio esplosivo dentro di sé: a sette anni era rimasto folgorato proprio dall’ascolto di un disco di Phil Woods (Phil on Etna, registrato nel 1989 con la Catania City Brass Orchestra) e aveva detto al padre che voleva suonare "quello” strumento, senza neanche sapere che fosse un sax contralto. A undici anni Cafiso non suonava le cose di Parker e Woods, ma negli stili di Parker e Woods. Poi, con il passare degli anni, si è progressivamente allontanato da quell’approccio. Lui stesso una volta mi disse che sentiva l’esigenza di sottrarsi all’influenza di Woods perché lo considerava semplicemente irraggiungibile.

Infine, puoi tracciare un breve profilo umano di Phil Woods?

Un uomo generoso, umile, capace di uscire dal palco piangendo, anche quando veniva acclamato a gran voce dal pubblico dopo un concerto trionfale, semplicemente perché era convinto che dopo Parker non si potesse creare più nulla di nuovo.


*